Nella lista delle mille esperienze che si devono provare nella vita non può certo mancare una gita in barca sul Lago Titicaca.
Sono passati quasi quattro anni dal nostro tanto desiderato viaggio (di nozze!) in Perù, ma questo è uno dei ricordi più belli che abbiamo. Tranquilli, nessuna storia sdolcinata vi attende…a dire il vero la nostra giornata speciale è iniziata con noi due che, pallidi come un cencio e trascinandoci a fatica, cercavamo la nostra imbarcazione. Ebbene sì, il mal d’ altura, nonostante i litri di infuso di foglie di coca e svariati medicinali, ha colpito anche noi!
Ma proseguiamo con il racconto… il Lago Titicaca, con i suoi 3.800 metri di altitudine, è il lago navigabile più alto del mondo ed è in parte peruviano, in parte boliviano.
Il traghetto con cui partiamo non è esattamente dei migliori: il cattivo odore del carburante ci farà compagnia per parecchie ore e noi, già provati, non possiamo che ridere pensando “ci manca solo il mal di mare”!
Dopo circa mezz’ora di navigazione cominciamo ad avvistare le prime isole galleggianti degli Uros.
La felicità è alle stelle. Guardiamo a bocca aperta la vita di questi uomini, donne e bambini che scorre lentamente, lontano dal mondo: all’orizzonte piccole imbarcazioni di pescatori, donne che lavano i panni nell’acqua davanti a casette gialle, bambini che corrono e ci salutano. Siamo stati catapultati in un quadro e non ce ne rendiamo conto?!
La prima tappa è l’isola di Mama Olga (scommettiamo che, se qualcuno di voi ha già visitato queste isole, questo nome non vi giungerà nuovo: si tratta della donna con lo spirito imprenditoriale e un fiuto per gli affari più acuti che io abbia mai conosciuto!): è qui che ci viene raccontata la storia di questa tribù. Per sfuggire alle aggressioni di popolazioni più bellicose, gli Uros decisero di vivere sull’acqua e, per farlo, cominciarono a costruire vere e proprie isole galleggianti. Ancora oggi uno dei principali compiti degli uomini della tribù è quello di tagliare le canne di totora, che crescono nell’acqua, e di provvedere alla manutenzione delle isole (nuovi strati di totora vengono continuamente aggiunti e vanno a sostituire gli strati più profondi, che marciscono con il tempo).
E, a proposito di totora… già che siete qui, potreste anche assaggiarla (gli Uros la utilizzano come alimento quotidianamente e, tra le altre cose, anche per pulirsi i denti!). Ne prendo un pezzetto e procedo con la degustazione, alla faccia di tutti i potenziali batteri che potrebbero trovarsi nelle acque di un lago!
Passeggiamo tra le casette, dove molte donne trascorrono la giornata ricamando o costruendo piccoli oggetti da vendere ai turisti: lunghe trecce incorniciano sorrisi meravigliosi, occhioni scuri e timidi si nascondono sotto grandi cappelli di paglia.
Di certo la parola “timidezza” non si addice a Mama Olga! Lei è il capo indiscusso della famiglia. Ad un certo punto mi trascina per un braccio dentro la sua capanna perchè vuole mostrarci dove vive con i suoi figli: sotto un tetto di paglia troviamo solo due materassi, una tovaglia e poche stoviglie, ma lei ne è orgogliosa di ciò che ha costruito e ci invita a provare alcuni abiti tradizionali, di quelli in lana di alpaca e colori sgargianti che abbiamo imparato a conoscere ed amare in questo viaggio. Dire di no è fuori questione e così, due minuti dopo, ci troviamo a fare foto perfettamente agghindati come i locali! L’imbarazzo lascia il posto alle risate, ma non è ancora finita…Mama Olga comincia a proporci piccoli manufatti da portare a casa come ricordo di questa giornata: tovaglie ricamate, barchette di paglia…compriamo tutto perché non sappiamo resistere alla sua simpatia e lei lo sa (donna d’affari!).
Salutiamo le isole galleggIanti dopo un breve giro su una imbarcazione tradizionale (incredibile!) e di nuovo Mama Olga è la protagonista: fa fermare la barca vicino ad un’altra imbarcazione per comprare alcuni polli (è una guida turistica, ma, prima di tutto, una donna che ha una famiglia da mandare avanti!).
La nostra seconda tappa è l’isola di Taquile, un’isola di 7 chilometri quadrati sulla quale vive una popolazione fortemente legata alle tradizioni. Una volta lasciata la nostra imbarcazione, percorriamo una strada circondata da campi coltivati (tra i prodotti tipici qui troviamo la quinoa) per raggiungere la piazza principale dell’isola, sulla quale si affaccia una piccola chiesa. I paesaggio è incredibile: il blu dell’acqua contrasta col terreno rossastro e sullo sfondo si intravedono vette innevate boliviane di rara bellezza.
Camminando incontriamo uomini nei loro vestiti tradizionali: camicia bianca, pantaloni neri, fasce colorate intorno alla vita e un particolare cappello di lana (la guida ci spiega che il colore del cappello è diverso a seconda dello stato sociale: rosso per gli uomini sposati, rosso e bianco per gli uomini celibi); lo stesso per le donne, molto restie a farsi fotografare: le loro ampie gonne e le loro bluse hanno colori diversi a seconda che siano sposate, fidanzate o in cerca della propria anima gemella (trovo che queste tradizioni siano affascinanti, potrei ascoltarle per ore!).
Il nostro incontro più bello avviene con due bambini che ci propongono di acquistare alcuni dei coloratissimi braccialetti che hanno creato. Ci guardiamo in tasca, abbiamo solo una banconota da dieci dollari e i bambini non hanno resto. Ci fanno capire che, anche se ci vendessero tutti i braccialetti che hanno, dieci dollari sarebbero troppi, mi si stringe il cuore davanti a quegli occhioni sinceri. Non vorrebbero che venissero loro regalati dei soldi, allo stesso tempo ci tengono a vendere i loro braccialetti e ci guardano con aria interrogativa. Abbiamo un’idea: compriamo i braccialetti (li custodiamo ancora oggi come un ricordo prezioso) e proponiamo loro di scattare un paio di foto. Non so come riusciamo a capirci (loro parlano solo la lingua quechua) e questi due piccoli ometti si mettono in posa. I loro visi dolci ci entrano nel cuore.
Nonostante il mal d’altura e il mal di mare, ricorderemo questa giornata come una delle più emozionanti del nostro viaggio!
Chiara